L'ennesimo Malecon
di Claudio Ramponi
Innanzi tutto vorrei
ringraziare Athos Enrile per avermi dato la possibilità di ascoltare (e
recensire) in anteprima questo album, che magari per altre vie non sarei
riuscito a scovare facilmente.
Un album che si può ben
definire multietnico, dove l'artista riversa in musica le esperienze vissute e
maturate nel suo peregrinare attraverso l'Europa, soprattutto Francia e
Germania, ma che si arricchisce anche di sapori balcanici, tzigani ed ispani.
Si comincia con "Marizibill", rivisitazione di una
poesia di Guillaume Apollinaire messa in musica ed interpretata da Leo Ferré
(solo dal vivo, mai registrata in studio), qui riproposta da Gianmaria con un
arrangiamento in stile Django Reinhardt, in cui dimostra un'ottima padronanza
della lingua di Molière (e di Apollinaire, bien sure).
Seguono nove brani
scritti di proprio pugno:
"Ussaro", la cui introduzione
riporta subito alle festose ed incalzanti atmosfere di Goran Bregović in cui
predominano fisarmonica ed ottoni, con un testo che passa fluidamente
dall'italiano al francese e viceversa.
"Calò" un valzer introdotto da un
clarinetto e una fisarmonica che evocano immagini in b/n di fumose balere e
antiche sagre paesane dove vecchie giostre coi cavalli di legno girano
pigramente all'imbrunire; poi a metà del brano cambia repentinamente il ritmo
sfociando in una specie di polka-ska introdotta da un violino tzigano. Anche
qui si passa fluidamente dall'italiano allo spagnolo in una sorta di esperanto
da giostrai girovaghi.
"Lo mismo de ti", uno swing-rock
alla Fred Buscaglione (Il mio amico c'ha la tosse, forse saranno le MS) anche
questo cantato metà in italiano e metà in spagnolo, con un pregevole assolo di
sax tenore deliziosamente vintage.
"L'ennesimo Malecon", una bachata
che sembra uscita dalla penna di Paolo Conte o dalle tavole di Hugo Pratt, una
storia di vite sciupate tra locali malfamati e bische fumose, di notti affogate
in pessimi liquori dal nome esotico e giorni che nascono gelidi e piovosi con
in bocca il sapore del vino nero ed amaro, di anime perdute che cercano di
riscattare i propri sbagli e cancellare i cattivi ricordi nel calore effimero
di un rapporto occasionale e senza futuro... Ay, suerte maldida!
"Romalen", una rumba gitana per
dipingere una quadro naïf sulla vita di una comunità di nomadi.
"Prima che venga giorno",
malinconica beguine con uno scarno arrangiamento di chitarra, pianoforte e
violino, la fine di una passione, l'abbandono di un abbandonato che si
abbandona all'oblio affogando i ricordi nella terapia del mosto, nel
"lieve soccorso d'ogni piccolo sorso... e vado prima che venga giorno,
stavolta più non torno da te".
"La Mante Amante", ancora atmosfere
balcaniche in lingua francese, fisarmonica, ottoni, chitarra e sax soprano in
evidenza.
"Il baro", un brano che sembra
estratto dal repertorio di Fred Buscaglione, introdotto dal siparietto di una
partita di poker recitato in slang americano, improbabili personaggi come il
Gobbo(?), Ronnie "il grasso", l'Allibratore, Tony Barracuda, il Capo
e lui, il Baro, cui "basta un'occhiata soltanto per capire come tira il
vento".
In "Lo chiamerei Goliardo" torna
l'atmosfera balcanica, inframezzata ed alternata con una ballata che ne spezza
(spiazzando un po' l'ascoltatore) il ritmo incalzante.
È il primo singolo
estratto dall'album, un brano che parla di anarchia e libertà, con una visione
disincantata e distaccata della vita, restando importanza ai valori che
l'educazione borghese e perbenista ci ha inculcato, riducendone il succo ad un
essenziale "carpe diem".
Il brano che chiude
l'album è una cover di Leonard Cohen, "Dance
me to the end of love", intensa interpretazione su di una scarna ma
struggente base di chitarra e violoncello.
In sintesi un album
interessante ed un artista da tenere d'occhio.
Certamente
l'approccio, soprattutto per chi è abituato alle super produzioni che da troppo
tempo ci propina la musica pop, può risultare difficile, ma è un album sincero
ed onesto, non privo di difetti (qualche introduzione è troppo lunga, qualche
situazione può risultare ripetitiva, la voce secca ed un po' ingolata va a discapito
dell'immediata intellegibilità dei testi) ma chissenefrega... Lasciatevi
conquistare dalle inconsuete atmosfere che questo artista ha saputo creare,
dentro le quali c'è tutto un mondo da scoprire.
Cenni biografici / Gianmaria Simon nasce nel 1976 a Sarzana (La spezia) ma da tempo è
residente a Massa. Cresce sotto l'egida delle petrose e anarchiche alpi Apuane
dove, a seguito di studi poco brillanti, si dedica a coltivare passioni
tutt'altro che redditizie come la musica e la poesia. Impara a suonare la
chitarra e compone le prime canzoni che mette a sedimentare in un cassetto. A
diciotto anni indossa una salopette, suona blues del delta e dice di voler
sposare una nera del Mississipi. In seguito viaggia in Germania e in Francia
suonando per strada musica di Dylan e di Neil Young. Una notte guardando The House di Šarūnas
Bartas ascolta la più triste delle melodie suonata da una fisarmonica e decide
di imparare la fisarmonica. Continua a scrivere versi seduto sopra un albero.
Suona musica d'autore coi Bandido Maria, musica tradizionale coi Mus, gipsy
rock con Mira Leon, combat folk coi Visibì, studia Bach al conservatorio. Dà
quindi vita ai Trajet Karavani e le canzoni sopravvissute agli anni vedono finalmente
la luce. Il progetto muta e si evolve e prende forma il primo album solista dal
titolo “L'ennesimo Malecon”.
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