Arriva un nuovo episodio letterario di Luciano Boero, sempre in bilico tra musica e
storia, una rivisitazione personale che contempla luoghi ben precisi, periodi
di vita obbligati e situazioni avvolte da uno spleen incontenibile che avvolge
il lettore sensibile.
Parlando di oggettività, il nuovo
saggio si intitola “Le
galline non mangiano la camomilla” (edizioni Baima –
Ronchetti & C.) e propone una stretta dicotomia utilizzata per creare il
parallelismo tra il susseguirsi delle stagioni e i differenti periodi della
vita.
Le Langhe sullo sfondo, perché è lì
che, tra realtà/fantasia/leggenda si snodano i 25 racconti che, partendo
dall’infanzia dell’autore, arrivano all'attualità.
Pochi giorni fa mi è capitato di
vedere “il film della Cortellesi” e sono uscito dal cinema con le
lacrime agli occhi. Analogamente, arrivato alla fine di “Le galline non
mangiano la camomilla”, quando cioè si materializza “La ragazza del
Tirassegno”, mi sono sinceramente commosso, e ho sentito un groppo alla gola,
una sorta di miscela tra angoscia e nostalgia che aveva bisogno di trovare
sfogo.
Seguo Boero sin dal suo primo libro,
e trovo che il suo attuale, splendido, modo di scrivere sia frutto di una
evoluzione importante, che è solo in parte dovuta al talento, e la sua capacità di
disegnare scenari bucolici intrisi di realtà equivale a quella del pittore, che
riporta su tela ciò che vede o immagina…
La pittura è una poesia che si vede e
non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede (Leonardo)
Il caro Luciano mi permette di
ampliare il mio concetto di “stimolazione della memoria”, che da sempre abbino
a trame musicali o a profumi/odori, mentre ho sempre trovato un freno rispetto
al verbo, che può tranquillamente essere manipolato da un fine e abile
narratore. Ma ora ho la conferma che un certo modo di scrivere spinge a ricordare,
al di là dei contenuti.
Ho spesso evidenziato,
commentando il lavoro di Boero, che il mio giudizio sul tema è condizionato da
esperienze comuni, da quella Langa che ho frequentato da bambino essendo la
terra in cui la mia famiglia era sfollata in tempo di guerra, e che ho
continuato a bazzicare, provando sempre, in ogni occasione, il piacere derivante dalla visione di tutto quanto gira attorno. Sono ligure, ma in queste zone mi sento a casa mia.
Le stagioni che vedono protagonista
Marco/Luciano si susseguono con la loro logica e le vicende più impensate
sgorgano spontanee.
Ogni storia è preceduta da un titolo
di una canzone e da una strofa del brano.
Mi viene in mente che proprio ieri,
mentre mi apprestavo a leggere il capitolo 25, l’ultimo, quello della ragazza
del Tirassegno, dalla televisione accesa in casa usciva una voce conosciuta,
quella della mia concittadina Annalisa, protagonista dell’incipit dell’autore.
Non è certo un brano che posso apprezzare - sono pur sempre carico di
pregiudizi se si parla di musica - ma quella strofa che Luciano aveva scelto
per terminare la sua playlist arrivava alle mie orecchie nel momento giusto.
Casualità?
Sono tanti i momenti che vorrei
evidenziare, ma occorre evitare operazioni spoiler!
Mi piacerebbe soffermarmi sulla
struggente storia di Valeria e Luca, anticipata da Annie Lennox o sulle
disavventure amorose di Nina introdotte da Pietro Franzi; vorrei scrivere dell’incantevole
quadretto che unisce Rosa e Luna che, partendo da Enzo Aita e il Trio Lescano, mette in luce il susseguirsi di differenti generazioni. Mi soffermo invece su una
visita ad un locale preciso di Monchiero avvenuta nel 2018, quando l’autore
arriva alla soglia psicologica dei settant’anni e decide che è un buon momento
per confrontarsi con le sue solide radici. È un’osteria, un tempo munita di
sala danze - La rosa bianca -, dove il padre suonava, la madre faceva la
cassiera, mentre imperversava Lascia o Raddoppia, i bambini giocavano,
gli amori nascevano.
Ma un tuffo così profondo nel passato
va fatto nel momento perfetto, perché ricreare un attimo di gioventù richiede
una cura dei dettagli che solo chi è stato un protagonista in un antico passato
può dominare e convogliare sui giusti binari.
La pioggia è fondamentale e
necessaria nella scelta del giorno perfetto, quella che “rumoreggia leggera
sui coppi del tetto, batte sulla tenda del dehors, rimbalza sul cemento del
terrazzo, scroscia dalle grondaie, scivola sulle due canaline che affiancano la
scalinata che dalla piazza della stazione scende fino alla strada principale, dove
un tempo si affacciava il negozio di barbiere e pettinatrice dei suoi genitori.
Per quelle stesse canaline lui ed Elena giocavano alla slitta scivolando seduti
su un pezzo di cartone”.
Il gestore del locale diventa l’unico
elemento capace di rompere il ricordo, tra una portata e l’altra, ma “non sa
quante altre cose Marco ha degustato in quella sala. È tentato di scoprire le
carte, ma preferisce tacere, pagare il conto ed uscire a farsi abbracciare da
quella bella pioggia tintinnante”.
Boero, nella sua conclusione, si
abbraccia alla saggezza di Alberto Gaviglio, mancato un paio di anni fa, a cui
è dedicato il libro; musicista e compagno di viaggio, amico che ha sempre
creduto nella capacità di creare lirica di Luciano, tanto da spingerlo a scrivere
questo libro che, evidentemente, necessitava della giusta ponderazione e
decantazione.
Il brano a cui si fa riferimento è
“Molecole”, “molecole di noi, nell’universo e nell’eternità, dai nostri
sogni sparsi in tutti gli angoli, al grande volo verso l’aldilà…”.
E la ragazza del Tirassegno diventa
il simbolo di un maledetto destino, lei, che con indifferenza maneggia il
fucile ed è pronta a sparare un colpo, casuale, finale, mortale.
Nelle parole di Boero, si legge la
soddisfazione per un passato da ricordare e raccontare, tra musica e vita
vissuta, ma si intravede la rassegnazione dell’attesa, quella sospensione mista
a curiosità che è tipica dell’inverno della vita, perché per quanto giovani
possiamo essere, io e Luciano, per quanto sia buona la salute che caratterizza il
nostro attuale momento, siamo consci che gran parte del percorso è stato fatto
e impiegheremo ciò che resta per esprimere saggezza e sentimenti, senza
particolare pudore.
Perché mi sono inserito in questo
finale? Cosa c’entro io? Beh, mi sento così vicino a Luciano che, almeno per un
momento, voglio unire le nostre storie.
Davvero un libro imperdibile!
A vent’anni si danza al centro del mondo.
A trenta si vaga dentro il centro.
A cinquanta si cammina lungo la circonferenza, evitando di guardare sia l’esterno sia l’interno.
In seguito, non importa: privilegio dei bambini e dei vecchi è essere invisibili.
Christian Bobin
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