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domenica 30 giugno 2024

Roommates al Musicology di Albenga per un Acoustic showcase. Di Alberto Sgarlato

 


 Roommates

Acoustic showcase at Musicology, Albenga, 29 giugno 2024 

di Alberto Sgarlato

 

Alle 18 più o meno in punto di un umido e afoso 29 giugno, il Musicology Record Store di via Torlaro nel centro storico di Albenga ha ospitato un live acustico dei Roommates.

Il quartetto, proveniente dall’estremo Ponente della provincia di Imperia e attivo ormai dal 2012, è formato dai chitarristi Davide Brezzo e Danilo Bergamo, dal bassista e cantante Marco Oreggia (per l’occasione, in questo set acustico, solo in veste di cantante) e dal batterista Alessio Spallarossa. In questa circostanza, il “team” ha potuto anche contare sulla presenza del fido Claudio al mixer e della fotografa ufficiale Alice.

L’evento è stato organizzato secondo la formula dello “showcase”, cioè alternando le esecuzioni di brani live a un’intervista condotta da Alberto Calandriello (detto il Cala), blogger e figura estremamente attiva nella scena culturale (non soltanto musicale) ligure.

Le domande del Cala, che ben conosce la storia della band, hanno consentito al pubblico di “vivere” letteralmente il percorso dalla nascita della formazione fino alla realizzazione di tre album in studio: dall’esordio “Fake”, al successivo “Roots”, fino all’attuale “Outside”, uscito proprio il 22 giugno 2024, più uno dal vivo.

E attraverso l’intervista emerge, di fatto, la piena continuità stilistica e di contenuti tra questi ultimi due lavori: se “Roots”, infatti, era profonda introspezione, un “guardarsi dentro”, un capire noi stessi con tutti i nostri sbagli, “Outside” diventa consapevolezza e osservazione del mondo che ci circonda.

Proprio da “Outside” la band ha presentato in questa occasione parecchio materiale, con alcune “golosità” inaspettate che risultavano del tutto inedite in sede live.

Lo showcase è stato aperto con “The sheep and the dog”, una “favola amara”, come la band stessa la definisce. In realtà una metafora orwelliana di tante preoccupanti derive della società in cui viviamo. Questa traccia era già uscita molto prima dell’album, inserita nella compilation del Pistoia Blues Festival. The Roommates hanno solcato quel palco prestigioso nel 2022, condividendo l’evento con La III Classe, band di country/bluegrass che sovente collabora con Joe Bastianich, e con dei giganti assoluti come i Gov’t Mule di Warren Haynes (già negli Allman Brothers Band e nei Dead, ex-Grateful Dead), nomi che non hanno bisogno di presentazioni. Questo ha dato spunto al Cala per “stuzzicare” Marco Oreggia, regalando al pubblico una gustosa aneddotica sulle emozioni che si vivono dietro le quinte dei festival di rilievo internazionale.

Ed è anche proprio attraverso questi festival che The Roommates hanno saputo intrecciare una rete di contatti che ha portato alle collaborazioni di altissimo livello che contraddistinguono il nuovo “Outside”. Qualche nome? La produzione di Pietro Foresti (che vanta lavori per componenti di Guns N’ Roses e Korn) e la partecipazione di strumentisti del calibro di Nick Oliveri (Queens of the Stone Age e Kyuss) e Diego Cavallotti (Lacuna Coil). Interessante e coraggiosa la scelta di non divulgare questo nuovo “Outside” sulle consuete piattaforme di streaming ma di vendere (a un prezzo tra l’altro popolarissimo) un’unica confezione che comprende il 33 giri in vinile, il CD e un codice per scaricare le tracce in formato “liquido”.

Marco Oreggia, a nome della band, ha raccontato come tutti i musicisti siano pienamente coinvolti nel processo creativo e come the Roommates siano in realtà ben più che semplici “compagni di stanza” (traduzione letterale del nome), ma una vera e propria famiglia, come tale con le sue inevitabili litigate, soprattutto durante il processo creativo, ma con una forte coesione negli obiettivi comuni. A tal proposito è interessante constatare come musicisti che provengono da background differenti e con gusti musicali estremamente vari, riescano alla fine a dar vita a una propria cifra stilistica assolutamente personale e definita. E alla fine diventa arduo anche catalogarli: loro si definiscono “Sotto il grande cappello del rock” (“Nel senso che non facciamo né classica, né jazz, né blues, né pop”, precisa Oreggia) e, all’interno di esso, potrebbero rientrare in quel variegato calderone che è il panorama “Alternative”.

In tutto questo processo creativo, Oreggia ha anche spiegato come oggi il traguardo del live rappresenti soltanto una piccola percentuale del percorso di una band, fatto di composizione, pianificazione, divulgazione e comunicazione.

Talvolta, purtroppo, le famiglie devono anche stare lontane per un po’ di tempo: e così The Roommates hanno parlato del progetto online “Room 120”, realizzato durante il lockdown imposto dalla pandemia. 120 sono i secondi (cioè due minuti) di soglia d’attenzione che un utente medio dedica a ciò che osserva e ascolta su internet. Per cui, in quei giorni difficili, la missione della band era questa: raccontare in “pillole” della durata di 120 secondi ciascuna una storia ogni volta diversa, facendo ascoltare canzoni e descrivendo progetti, pensieri, sogni.

Lo showcase albenganese si è concluso con “la cover che non ti aspetti”: una rilettura in pieno stile Roommates di “Hang up” di Madonna, contenuta anche nel nuovo album.

Per concludere, merita un plauso l’organizzatore e curatore dell’evento, Matteo Pelissero, titolare di Musicology Record Store. Non solo il suo impegno nel vivacizzare la scena musicale locale è ormai cosa nota ma, coraggio nel coraggio, ha “osato” piazzare questo showcase proprio in concomitanza con la partita dell’Italia agli ottavi di finale degli Europei di calcio.

E a giudicare dal negozio di dischi tutto pieno si può azzardare a dire, usando proprio una metafora calcistica, che “Cultura musicale batte intrattenimento sportivo 1-0”.

Ma mentre i tifosi della nazionale tornavano a casa dai vari bar dotati di maxischermo tutti tristi e con le pive nel sacco, rabbuiati dall’eliminazione degli azzurri dalla competizione europea, gli amanti della buona musica uscivano da Musicology Record Store col sorriso sulle labbra, dopo avere assistito a una bella intervista e a un bell’acoustic set.







Daniele Mammarella-"Wild Universe"-Commento di Luca Paoli

 


Daniele Mammarella – Wild Universe (Music Force, 2024)

Di Luca Paoli


La musica acustica di matrice folk anglosassone ha sempre avuto molta presa su di me sin dagli anni ’60 e ’70, con chitarristi come Bert Jansch, John Fahey fino ad arrivare a Tommy Emmanuel.

Mi fa molto piacere constatare che anche in Italia abbiamo chi si dedica al mondo folk inglese ed americano … mi sto riferendo a Daniele Mammarella, chitarrista dotato di una gran tecnica col fingerpicking e ottimo compositore che mette il suo sapere in funzione della musica con cuore ed amore per la stessa, e offre all’ascoltatore un viaggio musicale che, anche quando è più complesso, si lascia ascoltare più che piacevolmente anche da chi non è frequentatore del genere, e questa è la carta vincente di Mammarella.

Da un po’ di giorni gira nel mio lettore il suo ultimo lavoro (il terzo da solista) “Wild Universe”, che segna un passo avanti rispetto ai pur più che ottimi album che l’hanno preceduto, per qualità compositiva e varietà della proposta.

Dopo un lungo periodo di apprendistato, che ha incluso esibizioni con artisti del calibro di Dodi Battaglia, Gianni Morandi, Cisco Bellotti e i Modena City Ramblers, Mammarella è riuscito a guadagnarsi la stima di un vasto pubblico internazionale. La sua chitarra ha conquistato i cuori di molti appassionati in diversi paesi, esibendosi in ambienti prestigiosi e collaborando con illustri colleghi.

I dodici brani che compongono la scaletta del disco rappresentano un viaggio, non solo musicale ma anche culturale, nell’America rurale, tanto che sfido chiunque ascoltando i brani ad occhi chiusi, ad accorgersi che l’artista è italiano.



La novità che si incontra, da subito, ascoltando la prima traccia “Wake Up (Early In The Morning)" è che è cantata e anche molto bene e che, fin da subito, evidenzia il tratto internazionale del lavoro.

Molto belle anche “Silent Fieldse “The Meadow dal sapore irlandese con la presenza del violino di Mario Sehtl nella prima.

Daniele Mammarella non vuole strafare e si dedica con amore alla musica che più ama facendocela amare anche a noi e con “Moonlight West”, brano dai toni crepuscolari che ben evidenzia le doti chitarristiche del Nostro.

Ho apprezzato molto anche la seguente “Sky River” che vede anche una seconda chitarra suonata da Reins Jaunais.

Concluderei questo mio viaggio all’interno di Wild Universe con un altro brano di assoluto livello quale è “Windy pt.2” dal mood brioso e molto piacevole.

Allora, non solo per orecchie abituate a virtuosismi ma anche a chi ama ascoltare musica di qualità.

Bravo Daniele Mammarella, spero di vederti dal vivo e aspetto con curiosità il tuo prossimo disco.




sabato 29 giugno 2024

Deep Purple: accadeva il 29 giugno del 1973

Il 29 giugno 1973, subito dopo il concerto tenuto ad Osaka, il cantante Ian Gillan e il bassista Roger Glover lasciano i Deep Purple mettendo la parola fine alla Mark II del gruppo inglese.

Gli stessi cinque membri si ritroveranno insieme undici anni dopo per la reunion che produrrà l'album "Perfect Strangers".

Di tutto un Pop

Wazza

Deep Purple 1973 in Japan

29 GIUGNO 1973, IAN GILLAN LASCIA I DEEP PURPLE


Un gran silenzio ha sempre circondato l'uscita nel 1973 di IAN GILLAN dai DEEP PURPLE. Mesi prima dell'ultimo tour Ian consegna la sua lettera di dimissioni in cui dice che lascerà i Purple alla fine del tour successivo.

L’ultima data sarebbe stata quella di Osaka, il 29 giugno 1973. Quella era la fine programmata del tour e quindi il suo ultimo spettacolo e ancora nessuno aveva detto una sola parola a riguardo:

"Salimmo sul palco e ci esibimmo e lasciai la sede per conto mio e tornai in hotel. Non c’è stato alcun addio, nessuno collegato ai Purple disse qualcosa. Nessuno della band, nessuno dell’equipaggio, nessuno della gestione. Era come se tutta la questione fosse stata spazzata sotto al tappeto. È stato strano.

L’atmosfera di quel momento fu semplicemente orribile, e per me fu un sollievo aver finito tutto.


Per capire cosa stesse succedendo nella band avreste bisogno di uno psicologo esperto. Tutti nella line-up si comportarono come dei coglioni, me compreso. Non ci aiutò il fatto che da tempo erano coinvolte un sacco di altre persone, avevamo degli ordini da seguire e lavoravamo fino allo stremo. Se fossimo stati in grado di prenderci una pausa, allora forse avremmo elaborato il tutto. Ma eravamo su un tapis-roulant e arrivai al punto di volermene andare. È per questo che lasciai le mie dimissioni con una lettera. Quella sera a Osaka noi tutti agimmo come se nulla fosse, come se andasse tutto bene. Anche se chiaramente non era così.

Il giorno dopo lasciai l’aeroporto da solo, salii sul volo e tornai a casa. Era come se mi trovassi dietro le quinte e non fossi considerato un membro della band. Una volta tornato in Inghilterra mi sarei aspettato almeno una telefonata dalla band, ma non arrivò nessuna chiamata. Alla fine, qualche tempo dopo, ricevetti una chiamata da Roger Glover per dirmi che era stato licenziato dai Purple…”.


Hamburg Sep. 1984
 




Eric Clapton: era il 29 giugno 1974


Il 29 giugno 1974 la rivista "Musical Express" dedica un lungo articolo al ritorno di Eric Clapton sulle scene musicali dopo che, a causa della sua dipendenza dall’eroina, aveva rischiato di morire.
Di tutto un Pop…
Wazza

(Dalla rete)
Leroina entrò a far parte della vita di Eric Clapton qualche tempo dopo. Si era nel 1970. George Harrison, caro amico di Eric, era alle prese con la lavorazione dellalbum “All things must pass e gli chiese se volesse partecipare al progetto. Il produttore era leccentrico ma geniale Phil Spector. Negli studi circolava un sacco di droga. Un pusher offriva quanta cocaina si volesse purchè si comprasse anche un quantitativo di eroina. 
Nel 1970 Eric militava nei Derek and the Dominos e per il periodo che servì a incidere
Laylavisse a Miami: Stavamo in un alberghetto malandato di Miami Beach, dove si poteva comprare la droga nel negozio di souvenir vicino alla reception. Bastava passare lordine alla commessa, tornare il giorno dopo e ritirare la roba in un sacchetto di carta marrone. Ormai ci facevamo di tutto: ero e coca, oltre a un sacco di altra roba pazzesca, come lAngel Dust. La droga minò i rapporti allinterno della band e fu la causa della fine dei Derek and the Dominos”.
Pete Townshend, altro caro amico, cercò di scuoterlo organizzando un concerto al Rainbow Theatre di Londra il 13 gennaio 1973 (il concerto celebrava lingresso della Gran Bretagna nellUnione Europea). Eric arrivò strafatto al concerto, fece del suo meglio ma non era ancora ora di tornare sulle scene. Con Alice, nella loro villa nella campagna inglese, sprofondava sempre più: “Sopravvivevamo a cioccolata, cibi pronti, tutta leroina che ci si poteva fare e vodka. Non facevamo più sesso ed ero stitico”.
Poi la presa di coscienza che si era imboccata una strada senza ritorno. Le cure in clinica e, agli inizi del 1974, un periodo di riabilitazione in una fattoria gestita dal fratello di Alice. Eric e Alice si lasciarono. Lui riuscì a vincere la dipendenza dalleroina che venne sostituita dallalcool. Una dipendenza altrettanto insidiosa e pericolosa.






Il compleanno di Ian Paice


Compie gli anni oggi, 29 giugno, Ian Paice, batterista dei Deep Purple: la storia dell’hard rock passa anche attraverso le sue bacchette!

Happy Birthday Ian!
Wazza


 Pin up of Deep Purple from issue 438 of Jackie Magazine published 27th May 1972



Carmine Appice and Deep Purple's Ian Paice share drummer callous stories with each other 1974

venerdì 28 giugno 2024

Il Bath Festival Of Blues il 28 giugno 1969


 

Accadeva il 28 giugno 1969

Bath, contea del Somerset

Bath Festival Of Blues

 

Il Recreation Ground della cittadina termale alle porte di Londra ospitava in quel giorno la più grande manifestazione mai dedicata alla musica delle radici afroamericane.

Sul palco, nel verde della campagna inglese, era pronta a salire la crème del rock blues inglese:


John Mayall, Ten Years After, Led Zeppelin, Fletwood

Mac, The Nice, The Colosseum e molti altri…

 

Il presentatore era John Peel, leggendario dj della BBC.

Il Bath Festival Of Blues nacque da una geniale idea dell’organizzatore Freddie Bannister, una sorta di pioniere dei concerti rock in terra d’Albione.

Aiutato dalla moglie Wendy, Bannister fu così bravo e scrupoloso che, al contrario di tanti suoi colleghi dell’epoca (al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico) uscì vittorioso anche dal punto di vista economico, tanto che il Bath Festival Of Blues diventò, negli anni, una sorta di istituzione dei Festival inglesi.

Per agevolare la fluidità del programma, Bannister si inventò un palco doppio così che, mentre su uno si stava esibendo una band, sull’altro si preparava il gruppo successivo.

Il pubblico non ebbe così tempi morti d’attesa e il programma, molto intenso, venne rispettato al minuto.

I 30.000 presenti ebbero modo di godere di una giornata di musica straordinaria che scorse senza gravi incidenti.

Un unico problema di carattere tecnico accadde quando i Nice di Keith Emerson decisero di fare salire sul palco un gruppo di suonatori di cornamusa: il peso eccessivo fece crollare una parte del palco.


Il concerto venne così momentaneamente sospeso per dar modo di effettuare le riparazioni.

Un quarto d’ora dopo, la musica riprese più entusiasmante di prima …



Zita Ensemble – “Zita Ensemble”, di Alberto Sgarlato



Zita Ensemble – “Zita Ensemble” (2024) 

di Alberto Sgarlato

 

Per chi ama le più evolute ed avanguardistiche frontiere del jazz-rock, Zita Ensemble è un nome ben noto e molto apprezzato. La loro carriera, seppur con qualche stop, qualche ripartenza e qualche progetto parallelo nel mezzo (come è normalissimo che sia nel variegato mondo della musica), dura ormai da vent’anni esatti. Ovvero da quel 2004, anno della loro formazione, fino a questo 2024 che vede l’ensemble consegnare alle stampe questo album omonimo formato da otto tracce.

“Musica strumentale post-moderna” potrebbe essere un termine bellissimo e onnicomprensivo per descrivere gli universi sonori di questa formazione, nei quali convergono il jazz-rock, il post-rock, il math-rock e suggestioni “cinematiche” da colonna sonora.

La opener “The wind” vede arpeggi di chitarra ridotti all’essenziale, dal suono pulito, appena riverberato, danzare leggeri su una sezione ritmica mixata in modo presente, che si snoda con la velocità tipica di generi come il drum’n’bass e con deliziosi accenti degli splash che fanno capolino qui e là, fino a un crescendo con un rullante turbinante.

Atlantico” si regge su un roccioso giro di basso che fa persino venire in mente certi brani dei Soft Machine (periodo “Seven”) o del Perigeo, sul quale ancora chitarre ora minimali, ora dal sapore “desertico” e drumming fantasioso costruiscono le loro trame sonore.

Black summer” ha un’introduzione che potrebbe persino far pensare all’Hendrix di “Little Wing” o all’Howe di “Roundabout”. Quando la band entra al completo si respira quasi un clima da “blues fusion del III Millennio” (pur non essendo, in realtà, affatto un blues nella struttura; semmai nel “mood”).

Accenti dispari introducono “Dance Tape”, brano che trova il suo punto di forza nelle stratificazioni dei vari temi, rapidamente cangianti, che ciclicamente ritornano.

Us” profuma di esotico, di Bossa Nova. Ma come avevamo detto per “Black Summer”, se quel brano tecnicamente non è un blues, questo di fatto non è una bossa nova. Ed è proprio da questi dettagli che si coglie la sottile intelligenza compositiva della band, capace di far “respirare” all’ascoltatore certi climi, certe atmosfere, certe suggestioni, ma facendo in realtà tutt’altro. Difficile da spiegare, più facile da capire ascoltando.

Amigos” è forse la traccia più assimilabile al classico concetto di ballad, per la sottile malinconia e per quel senso di struggimento che la pervade.

 “Musica per immagini”, si diceva all’inizio. Qui le note lasciano che ogni ascoltatore viva, chiudendo gli occhi, il suo “film personale”. E nei minuti conclusivi sembra quasi di scorgere remoti echi king-crimsoniani.

Lipstick”, dopo i languori della traccia precedente, torna a giocare con il groove in modo poderoso. Math-funk-jazz ai massimi livelli per un brano che svela tutta l’energia di cui è capace questa band.

Si conclude con “Sunday”… Quel raffinato lavoro di bacchette sul bordo del rullante che sorregge tutti gli intarsi tra chitarra e basso è qualcosa di delizioso. Ascoltare per credere. Siamo di fronte a un’altra traccia che, dietro al groove intelligente e raffinato, nasconde una vena di malinconia. Come forse un po’ tutto l’album.

Concludendo: un’opera in cui la perizia tecnica degli strumentisti, di altissimo livello, è messa sempre al servizio di una scrittura intelligente, raffinata, senza sterili prove muscolari o gratuite ostentazioni ma, al contrario, alla costante ricerca di un “mood” elegante e ricercato.

Sia che voi ascoltatori siate culturalmente “figli” del prog-rock e del jazz-rock degli anni ‘70, o della new-wave e del minimal degli anni ‘80, o del post-rock degli anni ‘90 o dell’eclettico mondo chillout, drum’n’bass, trip-hop dei primi 2000, qui troverete un gran lavoro di composizione capace di unire almeno quattro generazioni diverse.







giovedì 27 giugno 2024

Ricordando Chris Squire che ci lasciava nel 2015

Fuck the dead... sono immortale!

Il 27 giugno del 2015, a causa di un male incurabile, ci lasciava Chris Squire, bassista inglese e membro fondatore degli Yes.

La sua eredità come uno dei più grandi bassisti nella storia del rock progressivo vive ancora oggi attraverso la sua musica e il suo impatto duraturo sulla scena musicale.

Chris Squire nacque il 4 marzo 1948 a Kingsbury, nel Middlesex, in Inghilterra. È diventato famoso come bassista principale e voce di supporto degli Yes, una delle band più influenti nel genere del rock progressivo. Squire è stato uno dei membri fondatori della band nel 1968 insieme a Jon Anderson, Peter Banks, Bill Bruford e Tony Kaye.

Il suono distintivo di Squire al basso è stato un elemento chiave nel suono unico della band. Utilizzava un basso Rickenbacker 4001, che gli conferiva un suono ricco e profondo. Oltre a suonare il basso, Squire ha contribuito significativamente alle armonie vocali del gruppo.

Durante la sua carriera con gli Yes, Chris Squire ha partecipato alla creazione di album di grande successo, come "The Yes Album" (1971), "Fragile" (1971), "Close to the Edge" (1972) e "90125" (1983), tra molti altri. Il suo stile di basso innovativo e la sua presenza scenica magnetica hanno reso Squire un'icona nel mondo del rock progressivo.

Squire ha anche lavorato su alcuni progetti solisti nel corso degli anni, pubblicando l'album "Fish Out of Water" nel 1975 e collaborando con altri artisti.

La sua eredità come uno dei più grandi bassisti nella storia del rock progressivo vive ancora oggi attraverso la sua musica e il suo impatto duraturo sulla scena musicale.



Racconti sottoBanco: il 27 giugno 2009 il Banco del Mutuo Soccorso esegue dal vivo e per intero l'album "Darwin!"

Darwin, Frascati 2009

Racconti sottoBanco

Nella villa Torlonia di Frascati, il 27 giugno 2009 il Banco del Mutuo Soccorso esegue dal vivo, per intero l'album "Darwin!".

Per ricordare quella memorabile giornata ho scelto questo bellissimo articolo di Teo Orlando, che fa rivivere a chi c'era quelle inconfondibili sensazioni.
Wazza



Articolo di Teo Orlando

Il Banco del Mutuo Soccorso ha suonato lo scorso 27 giugno a Frascati a Villa Torlonia presentando l'opera Darwin! Alla voce Francesco Di Giacomo per una rentrée di tutto rispetto e del tutto progressive.
Quando l’autorevole rivista inglese Gnosis stilò una sorta di graduatoria dei migliori album del genere progressive, molti appassionati del genere non credettero ai loro occhi vedendo che il primo posto non era occupato da uno dei capolavori di una band britannica.
Né il seminale In the Court of the Crimson King degli insuperabili King Crimson del geniale Robert Fripp o il leggendario Pawn Hearts degli immensi Van Der Graaf Generator con la stratosferica voce di Peter Hammill, o il cesellato Selling England by the Pound dei migliori Genesis di Peter Gabriel (che si classificò al secondo posto di stretta misura) o l’irriverente Aqualung dove Ian Anderson guidava i Jethro Tull verso rotte blasfeme; e neppure qualcuna delle sofisticatissime opere dei sottovalutati bardi della sperimentale scuola di Canterbury, dai Caravan agli Henry Cow fino ai Gong.

A guidare la classifica e a surclassare cotanta concorrenza fu un disco di un gruppo italiano, e d’origine romana, per giunta. Siamo nel 1972 quando il Banco del Mutuo Soccorso pubblica Darwin!, forse il primo concept album compiuto concepito da una band italiana. Tema e testi di notevole complessità, con l’intreccio di argomenti biologici, cosmologici e filosofici, e con un tasso di irriverenza che all’epoca fece gridare allo scandalo.
Per nulla invecchiati se non anagraficamente i musicisti e la musica, e di sorprendente attualità i testi, in quest’anno dedicato ai 200 anni dalla nascita di Charles Darwin e ai 150 dall’apparizione del suo capolavoro, ossia Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita (1859): abbiamo così assistito alla riproposta in concerto di questo capolavoro del progressive italiano.

La performance ha avuto luogo nella suggestiva cornice di Villa Torlonia a Frascati, il 27 giugno scorso, e ha visto il Banco nella formazione originale, con l’aggiunta di una recitazione affidata all’attore Alessandro Haber, preceduta da un’introduzione quasi teatrale ad opera del cantante del gruppo, Francesco Di Giacomo, che in modo semiserio ha cercato di ammaestrare” il pubblico sulle teorie di Darwin.

Le premesse ideologiche del disco del Banco sono in effetti ispirate al darwinismo e alle sue conseguenze: in particolare, viene pienamente accolta l’idea per cui le teorie di Darwin abbiano inferto un colpo mortale alla credenza nella creazione divina dell’uomo e nell’ordine finalistico della natura, voluto dall’intelligent design di un’entità provvidenziale e orientato verso una tendenza intrinseca all’armonia.


Secondo Darwin, infatti, tutte le specie viventi e la loro evoluzione sono determinate da tre fattori principali: 1) La variabilità spontanea delle popolazioni, sia vegetali, sia animali: ciò vuol dire che le variazioni genetiche che spiegano le differenze tra gli individui di una stessa specie sono assolutamente fortuite; 2) la selezione naturale prodotta dall’ambiente, in base alla quale gli individui che meglio si adattano alle condizioni ambientali appaiono anche più favoriti nella lotta per l’esistenza e nelle contese sessuali; 3) la trasmissione ereditaria dei caratteri, sviluppati liberamente e selezionati dall’ambiente, a un numero sempre più ampio di discendenti, finché non si forma una nuova specie.
Il ruolo cruciale delle variazioni fortuite rendeva superflua ogni ipotesi di un’autoregolazione finalistica della natura e permetteva di spiegare l’evoluzione biologica unicamente sulla base di cause meccaniche e naturali. Tuttavia, dato che, secondo Darwin, l’adattamento all’ambiente non produce direttamente caratteri nuovi, ma si limita a favorire la permanenza di alcuni caratteri rispetto ad altri, il modello darwiniano è meno rigido e deterministico di quanto si pensi: sono i caratteri genetici intrinseci dell’individuo a essere prioritari, ma essi sono frutto di una variazione casuale di partenza che non si combina agevolmente con previsioni ferree e necessitate.

Così, l’evoluzione biologica non può essere rappresentata come una linea retta che dalle forme più elementari di vita condurrebbe fino alle scimmie antropomorfe e all’homo sapiens. È più corretto dire che l’evoluzione è un processo aperto, costituito da salti e deviazioni impreviste, da tentativi ed errori, da rami secchi e discendenze interrotte fino a possibili regressioni a forme di vita più primitive.
Qualcuno potrebbe obiettare che i temi darwiniani non si prestano particolarmente ad una trasposizione musicale e poetica, in nome di un’astratta separazione tra la creatività artistica e i risultati delle scienze. Ma si tratterebbe di un giudizio erroneo ed affrettato. Il connubio tra poesia e concetti scientifici risale almeno al De rerum natura di Lucrezio e, quanto al darwinismo, esso trovò una notevole trasposizione nella visione pessimistica e agnostica di Thomas Hardy, che ci sembra molto vicino alle liriche del Banco
Il grande scrittore inglese obliterò ogni visione provvidenziale dietro lo spettacolo della pena di vivere e dello struggle for life, come si evince dalla poesia Hap (Il caso, 1898): “Crass Casualty obstructs the sun and rain,/And dicing Time for gladness casts a moan” (La fortuna balorda ostruisce il sole e la pioggia,/E il Tempo biscazziere per allegria getta i dadi di un lamento). L’idea centrale di Hardy, che fonde abilmente il Darwin di On the Origin of Speciescon lo Schopenhauer di Die Welt als Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818-19) e la sua concezione della volontà ciecamente operante, è forse espressa nella maniera più pregnante da Sue Bridehead, una delle protagoniste del romanzoJude the Obscure (1895): “Il mondo somigliava a una stanza o a una melodia composta in un sogno; si presentava come mirabilmente eccellente per un’intelligenza semi-desta, ma irrimediabilmente assurdo allorché ci si è completamente svegliati. La Causa Prima aveva lavorato automaticamente come un sonnambulo, e non riflessivamente come un saggio.
Temi analoghi presentano appunto i testi del Banco, che non a caso vennero percepiti all’epoca come provocatori e rivoluzionari. E questa carica dirompente si è mantenuta intatta e vitale anche durante il concerto, che ha seguito fedelmente la tracklist dell’album originario.


Stupefacente ancora oggi la possente voce di Di Giacomo, quasi da baritono, che senza il benché minimo tremolio ha accompagnato le tastiere di Vittorio Nocenzi, le chitarre di Rodolfo Maltese e Filippo Marcheggiani, il basso di Tiziano Ricci, la batteria di Maurizio Masi e i fiati di Alessandro Papotto. E questa voce ha cominciato a cantare le liriche all’interno del primo brano, dopo qualche minuto di introduzione strumentale. Brano che si intitola significativamente L’evoluzione. Evoluzione della musica come emblema del progressive ed evoluzione dell’universo senza necessità di postulare una Causa Prima: “Prova, prova a pensare un po' diverso/niente da grandi dèi fu fabbricato/ma il creato s'è creato da sé.

La visione è senz’altro orientata verso un deciso materialismo: sono solo cellule, fibre, energia e calore”ciò che spiega la genesi del cosmo e della vita. Ogni creazionismo di matrice biblica viene apertamente contestato: “E se nel fossile di un cranio atavico/riscopro forme che a me somigliano/allora Adamo non può più esistere/e sette giorni soli son pochi per creare/e ora ditemi se la mia genesi/fu d'altri uomini o di quadrumani.
E come il cosmo si è originato da pochi elementi, così il progressive ha dilatato i confini del rock ampliando la base blues, aprendosi al jazz e alla musica classica, utilizzando i cosiddetti metri additivi (ossia i tempi dispari), che caratterizzano questo brano e tutti gli altri dell’album. Notevolissimo l ’uso dei sintetizzatori che richiamano alla mente il dispiegarsi dell’universo dal caos originario, scene di origini primordiali e vulcani in eruzione.
Dopo i 20 minuti del primo brano, che si chiude con una polifonia strumentale memore degli impasti sonori dei Gentle Giant, si viene proiettati ex abrupto nell’evoluzione della specie umana: La conquista della posizione eretta ci ricorda irresistibilmente la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio, nella quale il genio di Stanley Kubrick aveva messo in scena una tribù di australopitechi che si ergevano trionfanti, dopo aver conquistato la capacità di camminare come bipedi eretti, brandendo un osso d’animale trasformato in arma offensiva. Prima di trasformarsi in ominide, la scimmia antropomorfa cammina a quattro zampe, inseguendo l’odore di bestia” e l’orma di preda. Poi, provando e riprovando (il trial and error, che daDarwin stesso a Karl R. Popper caratterizza così tanto l’intelligenza umana!), ergendosi e cadendo ripetutamente, si avvierà verso la definitiva emancipazione dal mero stato animale, proiettandosi verso traguardi infiniti: “E dove l’aria in fondo tocca il mare/lo sguardo dritto può guardare.


Segue poi a mo’ di intermezzo la Danza dei grandi rettili: il mellotron e le chitarre intrecciano una sorta di ballo funky-progressive. Poco importa che cronologicamente questo brano avrebbe dovuto precedere il secondo: come è noto, infatti, i dinosauri si sono estinti molti milioni di anni prima della comparsa dei primi ominidi. Ma l’anacronismo serve anche a sottolineare la dimensione profondamente “preistorica” in cui si muove tutto l’album e la performance che ne deriva.
Dalla preistoria si passa comunque alla protostoria con Cento mani e cento occhi. Siamo immersi in una dimensione hobbesiana, dove cominciano a formarsi i primi consorzi sociali, seppure finalizzati alle battute di caccia: “Laggiù altri ritti vanno insieme/insieme stan cacciando carni vive/bocche affamate braccia forti/scagliano selci aguzze con furore. Si pone però il dilemma all’incerto ominide: unirsi alla forza di cento mani e alla vigilanza espressa da cento occhi, propri di esseri che diventeranno da branco una tribù e costituiranno prima villaggi e poi città? Oppure fuggire dagli altri uomini, praticando un solitario bellum omnium contra omnes?
Il vero culmine poetico viene però toccato con 750.000 anni fa ... L'amore, forse la canzone più celebre del disco. Il sentimento dell’amore viene espresso con gesti delicati, che precedono addirittura l’elaborazione di un vero e proprio linguaggio verbale: “Se fossi mia davvero/di gocce d'acqua vestirei il tuo seno/poi sotto i piedi tuoi/veli di vento e foglie stenderei. Ma “il labbro inerte non sa dire niente” e quindi nella mente dell’ominide si mescola l’istintiva brama di possesso con un’oscura consapevolezza dell’impossibilità di possedere una donna che non è stata prima gentilmente corteggiata. Sembra di sentire il poeta statunitense Langdon Smith (1858-1908), che nella celebre poesia Evolution, quasi immedesimandosi in esseri primitivi, dice che “Mindless we lived and mindless we loved” (Dimentichi abbiamo vissuto e senza pensieri abbiamo amato).



Il concerto volge alla conclusione con un’accorata meditazione sul destino dell’umanità. È Miserere alla Storia, dove i versi “Quanta vita ha ancora il tuo intelletto/se dietro a te scompare la tua razza?, alludono sinistri alla possibile autodistruzione del genere umano. E in effetti, l’ultimo brano dal disco, Ed ora io domando tempo al Tempo, ed egli mi risponde…non ne ho! sembra scandire le eterne domande che assillano gli uomini dai loro albori: qual è la nostra vera origine e quale sarà la nostra fine? Qual è il senso del tempo?
“Ruota eterna, ruota pesante/lenta nel tuo cigolio/stai schiacciando le mie ossa e la mia volontà: è la ruota del Mulino di Amleto, per usare il titolo di un libro di Giorgio De Santillana ed Hertha von Dechend, che coincide con il tempo ciclico e qualitativo, ritmato da scansioni scritte nel cielo, fatali perché si identificano con il Fato stesso.

A questo punto, conclusa l’esecuzione del disco, tocca ad Alessandro Haber riprendere alcuni brani leggendone i testi senza accompagnamento musicale e dando una veste teatrale a quella che Darwin chiamava The Descent of Man (l'origine dell'uomo).

Il concerto continua ancora con la ripresa de L’evoluzione e con due altri brani dalla produzione del Banco, la pacifista R.I.P. e Non mi rompete: una conclusione perfetta per un connubio tra il progresso nella scienza e il progressive nella musica.




mercoledì 26 giugno 2024

I Beatles a Roma nel 1965 (reportage fotografico fornito da Wazza)


The Beatles a Roma per due concerti

27/28 giugno 1965 al Cinema Teatro Adriano

A leggere le cronache dell'epoca fu un mezzo fiasco! 

Photo gallery by kind permission of Wazza