Blind Golem, “Wunderkammer” (Andromeda Relix, 2024)
di Alberto Sgarlato
Per chi non lo sapesse, esiste tutta una
scena musicale fatta di storiche glorie del rock che hanno, nel corso di molti
anni di carriera, standardizzato la consuetudine di affiancare, alle tournée
con la propria band, delle occasionali date-spot in giro per l’Europa nelle
quali si fanno supportare sul palco da musicisti locali, celebrando così una
sorta di “tributo” ai loro brani più famosi. Solo per citare alcuni esempi: Ian
Paice, Joe Lynn Turner e Glenn Hughes, tutti appartenenti alla vasta galassia dei
Deep Purple “& dintorni”, sono tra coloro che da tempo effettuano questo
tipo di concerti, sempre accolti con grande affetto del pubblico anche in
Italia.
Ovviamente artisti di tal calibro, per non
inficiare il proprio blasone, non si affidano certo a musicisti sprovveduti ma,
al contrario, vogliono accanto a loro strumentisti di comprovata e collaudata
esperienza, in grado di garantire alla star di turno la giusta sicurezza sul
palco nell’eseguire le proprie canzoni.
Ecco, i veneti Blind
Golem, dei quali si va qui a parlare oggi, avevano negli anni
consolidato questo rapporto di reciproca stima e fiducia con il compianto Ken
Hensley, indimenticato organista, chitarrista acustico, slide-guitarist e
seconda voce degli Uriah Heep.
Del resto, loro stessi nascevano come
tribute-band di questa formazione, con il monicker di Forever Heep. E in
qualche modo persino il titolo del loro album di esordio, “A dream of fantasy”,
del 2021, al quale proprio lo stesso Ken Hensley aveva collaborato, in qualche
modo riecheggiava le atmosfere fiabesche e leggendarie della formazione di
riferimento (ok, come non pensare subito a “Return to fantasy”?)
Ma, arrivati a questo punto, liquidare la
formazione veronese come semplice band-clone di coloro che consegnarono alla
storia capolavori come “Salisbury” o “Very ‘eavy, very ‘umble”, sarebbe
quantomai sbrigativo, superficiale, ingiusto e finanche crudele.
Perché oggettivamente i Blind Golem sono
molto di più e meritano molto di più: hanno saputo innestare nel loro DNA i
geni dell’hard-rock, del prog, dell’hard-blues degli anni ‘70, dell’AOR e
dell’arena-rock degli ‘80 e con sapienza hanno filtrato gli “ingredienti”
secondo il gusto, lo stile e la tecnica del nostro nuovo millennio.
Il risultato è ancora una volta, come per il
precedente “A dream of fantasy”, un album “divertente” nel senso più nobile e
positivo del termine, cioè prodotto da una band che sa suonare divertendosi e
che per questo saprà farvi battere il piedino a tempo, oscillare le anche e
fare un pizzico di headbanging nei momenti giusti. E arriviamo alla nuova
proposta, “Wunderkammer”.
Se siete per le “cavalcate” incessanti sarete
subito conquistati dalla partenza di “Gorgon”, affidata al drumming
detonante di Walter Mantovanelli, ma di colpo ingentilita da un sapiente
solo chitarristico melodico di Silvano Zago; sempre in tema di
“cavalcate”, la splendida “How tomorrow feels” evoca persino certi riff
e certe aperture melodiche di Styx e Kansas. Invece l’incedere “granitico” e
scandito di “Some kind of poets” e di “Man of many tricks” è
emblematico di certi mid-tempo di scuola “heep”.
Eleganti barocchismi al profumo di prog nei 7
minuti di “Endless run”, dove Simone Bistaffa si
destreggia con gusto tra Hammond e Moog, mentre gli 8 minuti di “Golem!”,
con l’intro affidata a una chitarra wah-wah lenta e cupa, alternata a
spettacolari accelerazioni dettate ancora dal Minimoog, ci portano addirittura
nel mondo oscuro del miglior dark-prog. “Just a feeling” parte come una ballad,
per indurirsi strada facendo; “It happened in the woods”, con le sue sonorità
tenebrose e misteriose, è una sterzata verso certo acid-rock e cosmic-rock; il
gusto per la “cavalcata”, fortemente radicato nel sound della band, lo
ritroviamo in “Born liars” e in “Green Eye”, mentre le voci “a canone”
di “Coda… Entering the wunderkammer” inevitabilmente fanno pensare,
ancora una volta, agli Uriah Heep, con gran ricami di chitarra wah-wah ben
sorretta dalla solida base ritmica di Francesco Dalla Riva al basso e di
Walter Mantovanelli alla batteria.
In tutti i brani la voce di Andrea Vilardo
è perfettamente all’altezza della situazione, calda, graffiante, bluesy e
pienamente sicura sulle note più acute proprio come ci si aspetta dal genere,
ben sorretta dal lavoro corale offerto dal già citato bassista Dalla Riva e da Daniela
Pase.
Sonorità ricche, corpose, ben dipanate nello
spettro, grazie ancora una volta all’eccellente lavoro dietro al banco di
mixaggio di Fabio Serra, un nome che farà sobbalzare sulla sedia gli
appassionati del new-prog italiano, chitarrista e produttore di Røsenkreütz e Leviathan.
Infine, non si può tacere la splendida
copertina, realizzata da Rodney Matthews. Questo pittore, dal 1980 a
oggi, ha legato a doppio filo il suo nome a quello dei Magnum di Bob Catley e
del compianto Tony Clarkin, ma vanta innumerevoli altre collaborazioni di
prestigio (Thin Lizzy, Amon Duul II, Eloy, Nazareth, Scorpions… solo per citare
alcuni artisti in un portfolio vastissimo).
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