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martedì 7 gennaio 2025

Blind Golem, “Wunderkammer”, di Alberto Sgarlato


Blind Golem, “Wunderkammer” (Andromeda Relix, 2024) 

di Alberto Sgarlato


Per chi non lo sapesse, esiste tutta una scena musicale fatta di storiche glorie del rock che hanno, nel corso di molti anni di carriera, standardizzato la consuetudine di affiancare, alle tournée con la propria band, delle occasionali date-spot in giro per l’Europa nelle quali si fanno supportare sul palco da musicisti locali, celebrando così una sorta di “tributo” ai loro brani più famosi. Solo per citare alcuni esempi: Ian Paice, Joe Lynn Turner e Glenn Hughes, tutti appartenenti alla vasta galassia dei Deep Purple “& dintorni”, sono tra coloro che da tempo effettuano questo tipo di concerti, sempre accolti con grande affetto del pubblico anche in Italia.

Ovviamente artisti di tal calibro, per non inficiare il proprio blasone, non si affidano certo a musicisti sprovveduti ma, al contrario, vogliono accanto a loro strumentisti di comprovata e collaudata esperienza, in grado di garantire alla star di turno la giusta sicurezza sul palco nell’eseguire le proprie canzoni.

Ecco, i veneti Blind Golem, dei quali si va qui a parlare oggi, avevano negli anni consolidato questo rapporto di reciproca stima e fiducia con il compianto Ken Hensley, indimenticato organista, chitarrista acustico, slide-guitarist e seconda voce degli Uriah Heep.

Del resto, loro stessi nascevano come tribute-band di questa formazione, con il monicker di Forever Heep. E in qualche modo persino il titolo del loro album di esordio, “A dream of fantasy”, del 2021, al quale proprio lo stesso Ken Hensley aveva collaborato, in qualche modo riecheggiava le atmosfere fiabesche e leggendarie della formazione di riferimento (ok, come non pensare subito a “Return to fantasy”?)

Ma, arrivati a questo punto, liquidare la formazione veronese come semplice band-clone di coloro che consegnarono alla storia capolavori come “Salisbury” o “Very ‘eavy, very ‘umble”, sarebbe quantomai sbrigativo, superficiale, ingiusto e finanche crudele.

Perché oggettivamente i Blind Golem sono molto di più e meritano molto di più: hanno saputo innestare nel loro DNA i geni dell’hard-rock, del prog, dell’hard-blues degli anni ‘70, dell’AOR e dell’arena-rock degli ‘80 e con sapienza hanno filtrato gli “ingredienti” secondo il gusto, lo stile e la tecnica del nostro nuovo millennio.

Il risultato è ancora una volta, come per il precedente “A dream of fantasy”, un album “divertente” nel senso più nobile e positivo del termine, cioè prodotto da una band che sa suonare divertendosi e che per questo saprà farvi battere il piedino a tempo, oscillare le anche e fare un pizzico di headbanging nei momenti giusti. E arriviamo alla nuova proposta, “Wunderkammer”.

Se siete per le “cavalcate” incessanti sarete subito conquistati dalla partenza di “Gorgon”, affidata al drumming detonante di Walter Mantovanelli, ma di colpo ingentilita da un sapiente solo chitarristico melodico di Silvano Zago; sempre in tema di “cavalcate”, la splendida “How tomorrow feels” evoca persino certi riff e certe aperture melodiche di Styx e Kansas. Invece l’incedere “granitico” e scandito di “Some kind of poets” e di “Man of many tricks” è emblematico di certi mid-tempo di scuola “heep”.

Eleganti barocchismi al profumo di prog nei 7 minuti di “Endless run”, dove Simone Bistaffa si destreggia con gusto tra Hammond e Moog, mentre gli 8 minuti di “Golem!”, con l’intro affidata a una chitarra wah-wah lenta e cupa, alternata a spettacolari accelerazioni dettate ancora dal Minimoog, ci portano addirittura nel mondo oscuro del miglior dark-prog. “Just a feeling” parte come una ballad, per indurirsi strada facendo; “It happened in the woods”, con le sue sonorità tenebrose e misteriose, è una sterzata verso certo acid-rock e cosmic-rock; il gusto per la “cavalcata”, fortemente radicato nel sound della band, lo ritroviamo in “Born liars” e in “Green Eye”, mentre le voci “a canone” di “Coda… Entering the wunderkammer” inevitabilmente fanno pensare, ancora una volta, agli Uriah Heep, con gran ricami di chitarra wah-wah ben sorretta dalla solida base ritmica di Francesco Dalla Riva al basso e di Walter Mantovanelli alla batteria.

In tutti i brani la voce di Andrea Vilardo è perfettamente all’altezza della situazione, calda, graffiante, bluesy e pienamente sicura sulle note più acute proprio come ci si aspetta dal genere, ben sorretta dal lavoro corale offerto dal già citato bassista Dalla Riva e da Daniela Pase.

Sonorità ricche, corpose, ben dipanate nello spettro, grazie ancora una volta all’eccellente lavoro dietro al banco di mixaggio di Fabio Serra, un nome che farà sobbalzare sulla sedia gli appassionati del new-prog italiano, chitarrista e produttore di Røsenkreütz e Leviathan.

Infine, non si può tacere la splendida copertina, realizzata da Rodney Matthews. Questo pittore, dal 1980 a oggi, ha legato a doppio filo il suo nome a quello dei Magnum di Bob Catley e del compianto Tony Clarkin, ma vanta innumerevoli altre collaborazioni di prestigio (Thin Lizzy, Amon Duul II, Eloy, Nazareth, Scorpions… solo per citare alcuni artisti in un portfolio vastissimo).





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