RocKalendario
del secolo scorso – Gennaio
Di
Riccardo Storti
1955 – Un’apparizione che farà storia, perché, nella classifica dei titoli più venduti del Regno Unito, fa capolino un evergreen del nascente rock’n’roll: Rock Around the Clock di Bille Haley and the Comets.
È il 1° gennaio
e l’anno inizia con un orologio che scandisce un ritmo totalmente nuovo in UK:
tutta colpa di uno scombinato pennellone un po’ sovrappeso, con un
irresistibile tirabaci in fronte, che sbanca, nonostante negli States la hit girasse
tra radio e balere da oltre un anno e mezzo.
1965 – Il 15 gennaio esce il singolo degli Who, I Can’t Explain; in realtà, ad essere precisi, si tratta della prima uscita britannica, perché l’esordio per la Decca avvenne alla fine del 1964 su suolo americano. Un inizio importante perché è la prima volta che Townshend e i suoi escono con la sigla The Who.
E la canzone è un bel pugno sullo stomaco: al di là dell’approccio hard’n’garage con un sonoro riff tonante alla Kinks, I Can’t Explain colpisce per un testo anticonformista, teso ad illustrare il senso di incomunicabilità delle nuove generazioni di fronte alle assurdità di una vita quotidiana vessata da regole ipocrite e comportamenti studiati. Inizialmente sembra solo una canzonetta d’amore, ma, tolta la scorza, i cuoricini beat sono solo un pretesto…
“Ho
detto che non so spiegare
Mi
stai facendo uscire fuori di testa
Be’,
sono un tipo inquieto
Ho detto che non so spiegare”
È il prologo naturale di My Generation…
1975 – Il ritorno di Bob Dylan con Blood on the Tracks, album in studio pubblicato il 20 gennaio, dopo quasi due anni di silenzio discografico (se si eccettua il live Before the Flood del 1974, il menestrello – ormai – elettrico, mancava tra i vinili da quel Planet Waves del 1973). Un LP sofferto sotto molteplici punti di vista: c’è chi sostiene che i contenuti siano figli della recente separazione dalla prima moglie Sara Lownds, benché Dylan abbia da sempre smentito tale frangente, sottolineando, invece, un’ispirazione dai Racconti di Cechov.
Al di là ciò, pur restando Blood on the Tracks uno dei migliori prodotti del cantautore statunitense nel decennio, la realizzazione dell’opera visse non poche traversie dovute ad un perfezionismo e da un’insicurezza dell’autore quasi maniacali. Mai contento degli arrangiamenti, Dylan arrivò a registrare alcune canzoni più volte, servendosi di quasi una ventina di musicisti di sala, nonché di almeno 3 tecnici del suono.
1985 – Siamo nell’anno del LIVE AID. Aiutare l’Africa e il Sud del mondo concretamente è diventato un dovere. Ci avevano già pensato un mese prima, sotto Natale, Bob Geldof, Midge Ure a altri artisti britannici con Do They Know It’s Christmas. Il 21 gennaio agli Hollywood's A&M Studios di Hollywood, su iniziativa di Harry Bellafonte, nasce il supergruppo USA FOR AFRICA: ci sono Lionel Ritchie, Ray Charles, Bob Dylan, Michael Jackson, Bruce Springsteen, Diana Ross, Stevie Wonder, Smokey Robinson, Billy Joel e molti altri ancora.
Che stanno combinando? Semplice: entrano in studio per registrare We Are the World che verrà pubblicata il 7 marzo. La direzione degli arrangiamenti sarà affidata a Quincy Jones; tra i turnisti in sala Jeff Porcaro e David Paich dei Toto e il vecchio Ian Underwood delle Mothers of Invention di Frank Zappa. Naturalmente venne chiamato anche Bob Geldof. Il disco vendette 8 milioni di copie solo negli USA, raggranellando oltre 11 milioni di dollari donati in beneficenza (a cui si arriva a 63 milioni del fundraising generale – fonte).
1995 – 30 gennaio. E fu così che i Porcupine Tree diventano qualcosa di più rispetto ad un’invenzione del talentuosissimo Steven Wilson. È un gruppo, quello in The Sky Moves Sideways, in cui le varie personalità della line-up offrono contributi precisi (soprattutto nella collettiva Moonloop).
Punto di riferimento di Wilson e compagni, restano i Pink Floyd ma il veicolo neo-psichedelico dei Porcupine Tree riesce ad andare oltre, in un’elaborazione sempre più complessa e personale del sound che caratterizzerà gli album a venire. Si dice che sia il corrispettivo anni Novanta di Wish You Were Here dei Pink Floyd, sia per impianto concept, sia per afflato lirico. D’altra parte, iniziare il disco con una title track di oltre 18 minuti non è da tutti. Oddio: lo è nel progressive rock che, proprio da qualche anno, sta cominciando a rialzare la testa.
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