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mercoledì 13 maggio 2020

Effetto Memoria: Nick Mason - A Saucerful of Secrets (Auditorium Parco della Musica, Roma, 16 luglio 2019), di Davide Petilli


Effetto Memoria: Nick Mason - A Saucerful of Secrets (Roma, 16 luglio 2019)
Scaletta di nicchia e pura psichedelia nell’estate romana
di Davide Petilli

In un mondo di John e di Paul, io sono Ringo Starr!” Così cantano i “Pinguini Tattici Nucleari” in una canzone del recente Sanremo. Quindi questa mia prima “incursione” nella rubrica “effetto memoria” parlerà di Sanremo o parlerà dei Beatles?

Beh, la risposta è nessuno dei due!  Oggi infatti parlerò di Nick Mason e del suo straordinario concerto romano del 16 luglio 2019 accompagnato da una band di altissimo profilo ribattezzata “A Saucerful of Secrets”. Allora perché la citazione di Ringo Starr? Perché Nick Mason era la “silente” presenza nei Pink Floyd “in un mondo di Roger e David”. Ciononostante, ha rappresentato una figura molto importante per la band nonché l’unico presente in formazione in tutti gli album dei Floyd sin dalla fondazione con Syd Barrett. Il ruolo di “gregario di lusso” è sempre stato accettato di buon grado da Nick, il cui fondamentale contributo nei Pink Floyd è sempre stato più discreto, più dietro le quinte, tenendosi abbastanza in disparte nelle dispute successive tra i due leader Gilmour e Waters. Una persona insomma equilibrata e molto intelligente nella gestione della sua carriera.

Queste doti le ha dimostrate anche nel concept dietro questo tour iniziato nel 2018 (unica data italiana a Milano) e ripreso nel 2019 con ben sei date nel Belpaese. Conscio di non avere lo stesso richiamo globale di Gilmour e Waters, il batterista di Oxford ha concepito una scaletta ricca di gemme e chicche raramente suonate live negli ultimi venti-trent’anni dai due suoi ex compagni floydiani.
La scelta filosofica è chiara: la fanno da padroni il periodo barrettiano (1966-1968) e quello dei primi album post-Syd fino al 1972. Un anno non casuale che precede la definitiva esplosione nel firmamento rock dei Pink Floyd con l’album dei record “The Dark Side of the Moon”. La prima domanda sorge spontanea, si tratta quindi di un concerto che ha un appeal solo per i floydiani sfegatati, soprattutto “della prima ora”? Diciamo che la risposta è in parte sì, ma a mio avviso, è stata una scelta intelligente perché Mason ha avuto il merito di riportare live canzoni nemmeno apparse negli album ufficiali ma solo come singoli o raccolte successive. La cornice dello show è tra le mie preferite a Roma: l’Auditorium Parco della Musica. Inaugurato nel 2002, è un complesso molto amato dai romani specialmente in estate. La cavea all’aperto è infatti l’ideale per concerti serali accarezzati gradevolmente dal mitico vento “ponentino”. L’acustica è tra le migliori a Roma e ho avuto modo di testarlo anche in un concerto dell’anno precedente dei King Crimson.


Prima dei concerti, specie se vado da solo, mi fa sempre piacere testare gli umori del pubblico vicino a me e le loro aspettative. Il pubblico è prevalentemente maschile e della generazione che ha avuto modo di “vivere” i Pink Floyd ancora in attività. Ciononostante ho avuto modo di imbattermi anche in miei coetanei (fascia 35 anni) e anche in qualche ventenne. Alla mia sinistra nei posti numerati c’è Flavio, classe 1944 (“come Nick” mi dice orgogliosamente), pensionato romano di San Giovanni con il quale faccio una breve chiacchierata. Genuinamente mi dice che al concerto è venuto da solo. “Mi moje se la costringevo, chiedeva er divorzio” commenta sarcasticamente. C’è in lui una vena nostalgica comune a tanti che hanno vissuto quel periodo d’oro. Ho imparato con il tempo che questo momento-nostalgia contiene parti certamente vere e parti forse distorte dalla luce abbagliante che è sempre presente quando si ricorda la propria adolescenza e gioventù. Il dibattito con Flavio si è incentrato sul vivere i concerti ora e viverli negli anni ‘60-’70.

“Costavano meno in proporzione, erano più aggregativi, ora sembrano spettacoli di nicchia, alienanti e pronti per essere dati in pasto ai social con ‘sti cellulari sempre in mano a fa’ i video.”
Sul fatto che costassero di meno, qualche riserva me la lascio, così come se fossero più aggregativi o meno. È evidente che pensare al contesto in cui Mason suonava a 25 anni nel 1970 non è lo stesso che vederlo 75enne nel 2019. Si tratta di un argomento complesso. Tuttavia sul discorso dell’alienazione creata in parte dai cellulari, dai relativi video prodotti e pubblicati live sui social sono ahimè in parte d’accordo. Seppur in misura ridotta data l’età media e la natura del concerto, l’effetto di centinaia di cellulari alzati continuamente per fare foto e soprattutto video si è notata anche a questo concerto. E da questo punto di vista va rivalutata (in positivo) la severità con cui Robert Fripp un anno prima sullo stesso palco ha chiesto in modo perentorio al pubblico di non fare alcun video e di limitare le foto durante il concerto. Si tratta di una crociata a mio avviso giusta e sacrosanta. Il ricordo digitale è importante ma nel rispetto degli altri spettatori spesso disturbati nella visuale da cellulari in aria, flash e luci inappropriati. Flavio conclude questo nostro improvvisato dibattito pre-concerto con un augurio... “spero di vedere sempre più le nuove generazioni andare a questo tipo di concerti, perché non sanno cosa si perdono!”.

E Flavio ha decisamente ragione, perché lo show è stato decisamente straordinario. Una gemma per gli appassionati sfegatati e una grande opportunità per i floydiani più “moderati” che spesso hanno grande contezza degli album più venduti ma meno degli altri. Il palco e lo sfondo sono in pieno stile psichedelico, con luci stroboscopiche e sgargianti che si adattano perfettamente ai ritmi lisergici e rutilanti tipici dei Pink Floyd di fine anni ‘60, inizi anni ’70. Le intenzioni di Nick sono subito evidenti quando alle 21.05 (con una puntualità quasi disarmante ed inusuale in Italia), la sua band attacca con “Interstellar Overdrive” (1967), la suite per molti manifesto della poetica di Syd Barrett.  Suonata integralmente, è un degno inizio per un concerto che regala ciò che prometteva. La scaletta prosegue all’insegna di Syd con “Astronomy Domine” (1967) e “Lucifer Sam” (1967), fino a toccare altre fantastiche vette con brani tratti da “More” (1969) e “Obscured by clouds” (1972) le due incursioni “cinematografiche” dei Pink Floyd. Come accennato precedentemente, Mason ha inserito in scaletta brani tratti da singoli mai pubblicati all’interno di album se non raccolte successive. Tra questi vorrei citare l’irriverente e stralunata “Arnold Layne” (1967) primo singolo successo della band nel periodo barrettiano. Proprio allora accade un momento di grande pathos e commozione quando nello schermo compare una foto litografica di Syd. Ma Nick non vuole trascurare nemmeno “Atom Heart Mother” (1970) che viene ricordato con ben tre canzoni, tra cui la title track che nella sua versione originale era musicata da un’orchestra di 15 elementi e 22 coristi. Una suite che è una vera chicca per i fan, non eseguita da decenni nei live dei Pink Floyd e poi di Gilmour e Waters a favore degli album più conosciuti.
Una versione ridotta inserita magistralmente in mezzo alla sognante e delicata “If” (1970).
Una scelta davvero azzeccata e suonata magistralmente dalla band creata ad hoc per questo tour.


E parliamone della “A Saucerful of Secrets Band” che annovera musicisti di assoluto valore ed estro. Il bassista è Guy Pratt, un artista poliedrico in quanto cantautore, polistrumentista e anche attore. Bassista dei Pink Floyd dal 1987 (anno della reunion post-Waters), ha seguito in tour anche Madonna, Michael Jackson ed Iggy Pop. Il chitarrista principale è Gary Kemp il quale, oltre ad avere anche un passato in alcuni film di Hollywood, è soprattutto l’autore principale dei testi degli Spandau Ballet e un eccellente vocalist. La seconda chitarra è di Lee Harris, già membro storico della band new wave Blockheads mentre alle tastiere c’è Dom Beken che aveva avuto modo di collaborare in passato con il compianto Richard “Rick” Wright. Beken ha questa sera l’ingrato e impossibile compito di sostituirlo nel creare i bellissimi “tappeti musicali” che hanno reso magiche le atmosfere floydiane.

Parliamo insomma di musicisti a tutto tondo, con una solida esperienza alle spalle, poliedrici e versatili nei generi musicali. E poi c’è lui: Nick Mason. Un elegante e misurato signore inglese che è stato il solo e unico batterista nella storia dei Pink Floyd. Rimasi affascinato dalla sua figura quando da ragazzino vidi in VHS il leggendario concerto “Live at Pompeii” (1972) in cui suonava furiosamente la batteria nella rutilante “One of these days” (1971) e solennemente i timpani nella suite “A Saucerful of Secrets” (1968). Non è certamente un caso che Nick abbia scelto questa canzone dell’album omonimo per il suo tour e per il nome della band. Si tratta forse a livello storico dell’album più importante e decisivo della storia dei Pink Floyd. Era il 1968, i Pink Floyd rischiavano di scomparire in concomitanza con la crescente eclissi mentale del loro leader e fondatore Syd Barrett. In quei mesi complicatissimi, si insediò definitivamente David Gilmour con il quale i restanti membri della band fecero uscire per l’appunto un album fondamentale “A Saucerful of Secrets”. Un disco che risente ancora delle influenze di Barrett (è presente un solo pezzo di cui è lui l’autore), ma che certifica soprattutto le sapienti e rinnovate energie dei quattro reduci. E che sia certamente un disco fondamentale per Nick Mason, lo dimostra la straordinaria esecuzione di “Set for the control of the heart of the sun” (1967), uno dei primi brani dei “nuovi” Pink Floyd post-Syd. Una versione quella suonata all’Auditorium davvero ricca di magia e atmosfera accompagnata da effetti video color fuoco davvero azzeccatissimi. La title-track del tour è la penultima canzone di una serata fantastica chiusa da un’altra perla intitolata “Point me at the sky” (1968) uscita solo come singolo e che nel suo ritornello recita un eloquente “point me at the sky and let it fly” ovvero “puntami nel cielo e lascialo volare”.


E lasciamole volare queste due ore abbondanti di show condite da musica eccezionale con un grande protagonista: Nick Mason. Poteva continuare la sua agiata e serena vita tra l’Inghilterra e la Francia, godersi la sua corposa collezione di auto sportive (è anche pilota) e fare ogni tanto qualche comparsata da guest-star in concerti altrui. Invece no, è salito in cattedra e con grande intelligenza ha ideato un tour e uno show unico nel suo genere. Un’autentica e straordinaria opera di divulgazione musicale, una gioia per le orecchie dei profondi conoscitori dei Pink Floyd e un’occasione rara per chi avesse approfondito solo gli album storici (The Dark Side of the Moon e the Wall su tutti) nel conoscere che i Pink Floyd sono stati e sono molto di più di “Money” (1973) e “Comfortably Numb” (1979).
Per tutto questo, thank you Sir Nicholas Berkeley Mason.


Che cosa è “Effetto Memoria”? Si tratta di una serie di articoli commemorativi in cui si ricordano alcuni concerti memorabili… di qualche anno fa.

Qui puoi trovare la storia completa:


Pillole di concerto…




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