Fish live @Planet –
Roma 11/02/2015
Report e foto a cura di Maria Grazia Umbro
Articolo già apparso sul portale Rome by
Wild:
Non so voi, ma quando arriva il periodo di San Remo a me
scatta un po’ di nostalgia per il passato. E’ un senso di nostalgia per quegli
anni in cui davvero la musica era al centro dell’attenzione. Nostalgia per
quello che il passato ci ha offerto e che, ahimè, non sempre torna. Nostalgia
per i trent’anni trascorsi da quando ospiti come Queen, Bon Jovi, Peter Gabriel, Spandau
Ballet, Duran Duran, David Bowie, Depeche Mode, The Smiths, facevano infiammare il pubblico della
kermesse più seguita in TV. Ebbene si, trent’anni. Cioè gli anni ’80. Così
bistrattati da tutti perché (dicono) non avrebbero apportato alcuna novità
epocale al panorama musicale: dopo i miti secolari degli anni ’60 e ’70 che
avevano lasciato un segno (ormai) indelebile, agli anni ’80 è sempre stato
affibbiato lo stereotipo di non avere prodotto grandi cose, se non la nascita
di un’era dove l’estetica aveva più importanza della sostanza. Ecco, non è poi
così vero che gli anni ’80 non hanno prodotto nulla di meritevole. Figli di
rock’n’roll e psichedelia che li aveva preceduti, arrivano il progressive, il
punk e la new wave. In questo contesto così articolato, come in una specie di
terreno fertile dove negli anni si sono messe a dimora buone sementi, nascono
(fra gli altri) i Marillion che,
ispirati dal sound di Genesis, Yes e King Crimson, per citarne alcuni, hanno riportato in auge il new prog.
Una premessa, per quanto noiosa, era d’obbligo. Perchè in
effetti sono passati trent’anni dal periodo in cui Fish (Dereck William Dick) era il frontman nonché fondatore dei Marillion,
dal 1981 al 1988, ed ha contribuito con la sua voce al successo di questa band.
In particolare, “Misplaced Childhood”
concept album del 1985, da tutti ritenuto il miglior lavoro e il maggior
successo commerciale, è quello che ha portato il singolo “Kayleigh” in cima alle classifiche inglesi e li ha consacrati anche
a livello internazionale. Ed è proprio lui che a distanza di 7 anni dall’ultima
volta, torna in Italia, a Roma, e ad accoglierlo c’è un Planet stracolmo di fan
per niente ossidati, proprio come il nostro gigante
buono, che nonostante i suoi 57 anni e qualche acciacco di salute, ci ha
regalato due ore intense di musica introspettiva ed esaltante allo stesso
tempo.
La sua scaletta comprende prevalentemente brani del suo
repertorio solista, iniziato nel 1990, con particolare attenzione all’ultimo
disco “A feast of consequences”
(2013), “13th Star” (2007) e “Vigil in a Wilderness of Mirrors”
(1999). Non mancano però richiami al repertorio dei Marillion, anche se alcune fra le più famose (appunto la hit single
“Kayleigh”, o “Lavender”, o anche “Incommunicado”) non sono state
contemplate. Quando le luci si accendono sul palco per accogliere la band, la
prima cosa che si nota è l’asta del microfono che è straordinariamente alta, e
lui vi si avvicina calmo e sorridente, con una kefia marroncina attorno al collo, occhiali, camicia e scarpe
sportive, pronto ad iniziare. Bellissima la intro del primo brano con il suono
lontano delle cornamuse. Lo sguardo passa in rassegna la platea, gli occhi
chiari sembrano guardare ad uno ad uno le persone che sono raccolte sotto il
palco. Questo si ripeterà molto frequentemente per tutta la durata del
concerto. Col senno di poi, data la forte predisposizione ad interpretare le
canzoni quasi come in un recital, il fatto di guardare bene e a lungo negli
occhi del pubblico sarà un modo per avvicinarsi ancora di più con le parole. Ma
il nostro gigante buono è stato anche
molto disponibile verso il pubblico, inserendo qua e là qualche racconto.
Subito dopo le prime canzoni, ha rotto il ghiaccio salutando (“ciao Roma, come sta?”). Si è scusato
per essere un fottuto scozzese che non
parla italiano. Poi ha voluto esprimere una certa “solidarietà” fra
italiani e scozzesi, dicendo che non si sarebbe parlato di rugby dato che “voi siete stati battuti sabato, e anche noi
siamo stati battuti sabato” (riferendosi
al torneo Sei Nazioni). In compenso ha detto di essere un ottimo conoscitore (o
consumatore??) di vino, limoncello e grappa italiani… A quel punto, riprendendo
un po’ le redini della serata, ha presentato il brano “Manchmal”, subito dopo un’altra pausa “sociale” col pubblico. Il
locale si è riscaldato e lui toglie la kefia
dal collo, poi dalla tasca posteriore prende un fazzoletto e ci si asciuga la
testa (non ha più la folta capigliatura di un tempo…). Mostra a tutti che
ripone quel fazzoletto sempre nella tasca posteriore, poi dalla tasca anteriore
tira fuori un altro fazzoletto e ci si pulisce gli occhiali. Poi dice di far
attenzione a non mischiare mai le due cose. Il momento di ilarità è servito e
lui, si vede che è molto rilassato e contento di essere sul palco, riprende con
tono ironico a raccontare qualcosa per presentare la canzone successiva (“This is a Lovesong”). L’aneddoto parla
di una sua ex fidanzata che lasciandolo lo ha reso molto triste, e sua figlia,
vedendolo molto depresso per questa cosa, gli chiede se può telefonarle per
parlarci. Lui, pensando che lei volesse tentare di farli riconciliare, la lascia
fare. Assiste alla telefonata mentre la figlia dice alla ex: sappi che sei la peggior fidanzata che mio
padre abbia mai avuto!” . In effetti la canzone in questione “Arc of the Curve” parla di quelle
bellissime storie d’amore che poi finiscono. A questo punto le chiacchiere si
esauriscono con la presentazione dei successivi cinque brani tratti tutti da “A Feast of Consequences”: si tratta di una
suite che sotto il titolo “High Wood” raccoglie cinque parti (“High Wood”, “Crucifix Corner”, “The
Gathering”, “Thistle Alley”, “The Leaving”). Il disco, e la suite in
particolare, è quasi interamente ispirato a dei ricordi legati alla prima
guerra mondiale, e ad una serie di coincidenze della vita (il nonno che viene
ferito in un posto della Francia vicino ad un hotel dove lui si trova a dormire
la notte del suo compleanno nel 2011, la sua fidanzata che è originaria di un
paesino della Germania dove suo nonno ha combattuto…). In questa parte del live
l’atmosfera si fa molto più rarefatta, in certi istanti,
complice il fumo artificiale sul palco, si può quasi immaginare di essere in
mezzo alla nebbia su un campo di battaglia, o anche sulle Highlands scozzesi. E
l’enfasi di Fish
nell’interpretazione si fa più sfrontata, inizia anche a giocherellare con la
lunga asta del microfono, brandendola come una spada o una lancia (soprattutto
verso le prime file, come a voler puntare uno per uno i suoi nemici). Siamo già
oltre metà dello show e con alcuni pezzi più vecchi che seguono, in particolare
quelli dei Marillion, il pubblico
può finalmente dare sfogo all’entusiasmo che finora era stato si forte, ma
ancora composto. A questo punto tutti sono a braccia alzate anche perché Fish esorta il pubblico a farlo (“Roma, hands up!”), e l’apoteosi, se così si può dire, arriva con “Heart of Lothian” tratto da “Misplaced Childhood” (1985). Arriva il
momento di presentare la band eccezionale che lo accompagna: Robin Boult alle chitarre, Steve Vantsis al basso, John Beck alle tastiere, e Gavin Griffiths alla batteria. Lui
invece è Fish (“They call me the Fish”). Il
concerto sarebbe finito così ma un bis è previsto (“Incubus”, tratto da “Fugazi”
del 1984) ed un secondo viene chiesto a gran voce (“The Company”, tratto da “Vigil
in a Wilderness of Mirrors” del
1999). Lui coglie l’occasione per dire che gli dispiace di essere venuti in Italia
in ritardo (il tour doveva passare a novembre, ma fu rimandato per motivi di
salute di un componente della band) e quindi voleva approfittare per dire due
cose che avrebbe dovuto dire all’epoca: 1) buon Natale e 2) buon anno nuovo! E
con questa battuta si arriva al momento dei ringraziamenti e dei saluti finali.
“My name is Dereck, I am the
Fish”.
Entusiasmo
alle stelle. Il
pubblico, diversamente dal solito, ci mette un po’ a lasciare la platea del
Planet, c’è un fornitissimo banco del merchandising ufficiale che viene preso
d’assalto, e in molti scattano foto con le magliette appena prese. Tutti
restano più o meno nei pressi del palco perché sperano che Fish si affacci per firmare autografi. In questo piccolo
assembramento sento i commenti a caldo dei fan che sono tutti molto contenti,
soddisfatti e consapevoli di aver assistito ad uno spettacolo bellissimo, con
musiche egregiamente arrangiate ed eseguite. Sento anche qualcuno che dice
“peccato per la voce”, che forse non è quella di una volta, ma a mio avviso non
ha nulla da invidiare per uno che nel 2008 si era ritirato dalle scene per un
problema di salute proprio alla gola, che lo ha tenuto lontano per un po’ dalla
vita sregolata della rockstar.
E’ da sottolineare l’attenzione che il Planet mette nella sua
programmazione, prevalentemente dedicata alla musica progressive italiana e straniera, rendendolo una specie di “tempio”
dove poter apprezzare un certo tipo di musica. Come avuto modo di dire, c’è una
generazione di artisti (quella passata, evidentemente) che riesce ancora a
trasmettere forti emozioni quando sale sul palco e riporta alla luce i successi
che hanno accompagnato la giovinezza di molte persone. Anche Fish, con il suo carisma, questa sera
ci ha dato un’opportunità imperdibile di assistere ad un concerto grandioso e
coinvolgente.
SETLIST:
PERFUME RIVER (2013)
FEAST OF CONSEQUENCES (2013)
MANCHMAL (2007,
13th Star)
ARC OF THE CURVE (2007,
13th Star)
HIGH WOOD (2013)
CRUCIFIX CORNER (2013)
THE GATHERING (2013)
THISTLE ALLEY (2013)
THE LEAVING (2013)
SLAINTH MHATH (Marillion, 1987 Clutching at straws)
VIGIL (1999,
Vigil in a wilderness of mirrors)
BIG WEDGE (1999,
Vigil in a wilderness of mirrors)
HEART OF LOTHIAN (Marillion, 1985 Misplaced Childhood)
…
INCUBUS (Marillion, 1984 Fugazi)
THE COMPANY (1999, Vigil in a wilderness of mirrors)
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